Breve profilo storico del cilento, di Salvatore Patrizio

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La storia di questa antichissima area della regione Campania si perde nella notte dei tempi, come dimostrano alcuni ritrovamenti che risalgono addirittura al paleolitico.

La scoperta di manufatti e utensili provenienti dal vicino Tavoliere pugliese o dalle isole Lipari, inoltre, ci dicono che nel corso dei secoli il Cilento fu crocevia di scambi: percorsi di crinale, nell’interno, lo mettevano in contatto con le altre civiltà appenniniche (vie della transumanza e traffici, luoghi di culto e di mercato), il mare lo avvicinava alle civiltà nuragiche, a quelle egee e mediterranee.

Il territorio fu fortemente interessato da insediamenti protoetruschi del tardo IX secolo a.C. e tra il VII e il VI secolo a.C. dall”arrivo dei Greci. I Sibariti, discendenti degli Achei, fondarono Posidonia divenuta in epoca romana Paestum. Nello stesso periodo, per mano dei Focesi, provenienti dall’ Asia Minore, sorse Elea (poi divenuta la Velia romana). Quando si parla di Elea/Velia, viene spontaneo il ricordo dei suoi grandi cittadini, i filosofi eleatici, vissuti nel VI-V sec. a.C., soprattutto Senofane, Parmenide, Zenone, Melisso e Leucippo, che tanto impulso hanno dato alla filosofia ed alla civiltà. Il fiorente centro cilentano ospitò la Scuola Eleatica di filosofia e quella medica da cui trarrà origine l’importante Scuola Medica Salernitana, punto di partenza per la moderna medicina occidentale.

La bellezza di queste coste, ispirò come una Musa, poeti e cantori di ogni tempo: in questi scenari si svolgono vicende legate a molti dei miti greci e romani, come ad esempio il mito dell’ isola delle sirene, nell’ Odissea o il mito di Palinuro, il nocchiero di Enea, nell’Eneide.

Poi vi fu la penetrazione sannitica e la conquista della regione da parte dei Romani, intorno al III secolo a.C., che diedero il nome alla regione (“cis-alentum” cioè “al di là dell’ Alento”). I Romani, purtroppo, non ebbero grandi meriti nel governo dell’area (Cesare Ottaviano Augusto ne fece una provincia per allevare gli animali e coltivare alimenti destinati alle mense romane) alpunto che la zona costiera si trasformò presto in un”area depressa e paludosa, da cui gli abitanti emigrarono in massa per tutti i secoli successivi ma fu certamente la guerra gotico-bizantina (535-553) e il successivo insediamento dei Longobardi che provocarono il totale abbandono del territorio. Bisognerà attendere il secolo successivo prima che si comincino a rilevare i primi segnali di una timida ripresa, con l’immigrazione di monaci greci, ai quali si deve la nascita di una nuova civiltà.

Protetti nelle zone interne dai duchi longobardi, che vedevano nella loro presenza l’unico elemento concreto per portare avanti il loro programma di dissodamento e coltivazione della terra, e protetti lungo la costa dalla sempre vigile flotta bizantina, essi riuscirono a determinare l’effettiva rinascita delle attività economiche sul territorio.

Dissodarono terreni, captando fonti di acqua per irrigarlo e accoglievano i profughi, dando loro la possibilità di sistemarsi coltivando le terre che i duchi longobardi concedevano: ciò consentì anche di dar vita, sia pure ancora in forma embrionale, servendosi dei vecchi approdi, a piccole ma importanti attività commerciali.

La crescita di questi nuclei prosperò fino alla metà del IX secolo quando a Licosa e ad Agropoli conquistate si stabilirono i Saraceni; ciò costrinse per l’animosità e la bellicosità di queste genti le popolazioni costiere a faticosi spostamenti per trasferirsi nell’entroterra onde cercare di evitare le violenze.

Furono quelli anni terribili per le popolazioni locali perché quasi tutti i villaggi costieri, tra il Solofrone e l’Alento ebbero modo di provarne laferocia dei saccheggi messi in atto periodicamente per rifornirsi di vettovaglie: i sopravvissuti cercarono rifugio tra le balze dei monti più remote ed inaccessibili delle montagne retrostanti, finanche la fortezza di Lucania che sorgeva sul Monte Cilento (oggi Monte della Stella) venne distrutta.

La caduta dei principi longobardi di Salerno (seconda metà del XI secolo) lasciò spazio a nuovi padroni: i Normanni.  Artefici di un’abilissima e decisa diplomazia con la chiesa di Roma, predilessero i benedettini e la cultura latina a danno di quella greca.

Il dominio Normanno, tuttavia, coincise con un periodo di ripresa economica del Cilento in generale, grazie anche all’interessamento delle istituzioni ecclesiastiche; una ulteriore riorganizzazione amministrativa si ebbe con il dominio svevo.

Tutto questo benessere fu bruscamente interrotto di lì a qualche anno dalla guerra del Vespro (1282-1302) tra Angioini ed Aragonesi, che interessò tutto il meridione d’Italia portando ovunque morte, distruzioni e danni incalcolabili: quando nel 1302 la pace di Caltabellotta mise fine alla guerra  nel territorio cilentano erano stati completamente distrutti i

paesi di Pioppi, Perdifumo, S. Mango, S. Lucia, Acquavella, Casalicchio (oggi Casalvelino), S. Mauro, Serramezzana, Tresino, S. Giorgio, S. Primo, Casacastro e la stessa fortezza di Cilento, sull’omonimo monte (oggi M. della Stella).

Di essi gli ultimi cinque non furono mai più ricostruiti. Nel territorio il livello di civiltà era notevolmente regredito: bande armate scorazzavano per i fondi depredando i raccolti, dal mare incursioni corsare non avevano più freni e la pressione fiscale esercitata dalla corte di Napoli tramite le cosiddette “regie collette” (periodiche raccolte di denaro ordinate dalla Capitale), era ai massimi livelli.

A tutto ciò, nel 1343, si aggiunse una tremenda carestia che ridusse alla fame i pochi contadini rimasti e nel 1347 un maremoto che sconvolse tutte le coste del Tirreno, provocando l’insabbiamento dei porti e favorendo in tutta la piana di Duoflumína l’impaludamento delle campagne, ormai non più controllate dai contadini.

All’inizio del XVI secolo (1515), un’altra calamità si abbattè sulle coste meridionali: i pirati Barbareschi, partendo dalle basi site sul litorale africano, periodicamente piombavano sul cilentano saccheggiando e traendo come schiavi gliuomini validi e le donne di aspetto più piacevole. Per arginare il fenomeno, nel 1537 il Viceré di Napoli, don Pietro di Toledo, ordinò di riattivare tutte le vecchie torri di difesa e ne fece progettare di nuove dislocate in vari punti strategici (sulle spiagge, sulle rupi e alle foci dei fiumi), generalmente, ad un miglio l’una dall’altra, in una sorta di catena ininterrotta affinché, in caso di pericolo, gli abitanti, avvertiti, potessero mettersi in salvo.

Il piano difensivo del Toledo, sarà portato a termine soltanto nella seconda metà del secolo XVI dal suo successore, Viceré don Parafan de Ribera, che tra la fine del secolo XVII e l’inizio del XVIII, sulla costa del Cilento farà realizzare ormai tutte le torri, in numero di 57. Dopo i Barbareschi arrivarono i pirati turchi che martoriarono il Cilento, per oltre un secolo: in questo periodo furono depredati il convento di Acciaroli nel 1620, Agropoli nel 1629 e Pisciotta nel 1640: le tante torri, che avrebbero dovuto difendere la costa, non riuscirono dunque ad assolvere il compito per cui erano state realizzate perché non furono mai effettivamente efficienti.

Nel finire del secolo XVIII nel Cilento è presente una personalità di spicco, Giambattista Vico: egli dimorò per nove anni a Vatolla, come precettore dei figli del marchese Domenico Rocca, dal 1686 al 1695.  Nato nel 1668, Vico ebbe dunque questo incarico a 18 anni, e lo ricoprì ininterrottamente per nove quando ventisettenne ritornò definitivamente a Napoli professore di retorica all’Università: nella quiete del paesello cilentano, Vico “aveva fatto il maggior corso degli studi suoi”, prediligendo la filosofia, la poesia e il diritto.

Dopo alterne vicende storiche il 27 dicembre 1805 veniva ufficialmente riconosciuta l’appartenenza dei territori del Regno di Napoli, in cui ricadeva il Cilento, ai francesi di Napoleone che ne affidò il governo a suo cognato Gioacchino Murat. Durante l’occupazione francese furono soppressi i monasteri e i conventi, (e lo stato ne incamerò i beni), fu combattuto con rinnovato vigore il banditismo, riportando la legge laddove era stata dimenticata, fu promulgato un nuovo Codice legislativo, riorganizzato l’esercito e, soprattutto, fu abolito il feudalesimo riconoscendo ai comuni prerogative che fino allora erano state solo dei baroni. Per questa rivoluzione Murat, artefice principale, divenne l’idolo delle folle: nel gennaio del 1809 viaggiando per il Cilento fu acclamato come un eroe e gli furono attribuiti onori che erano stati in passato riservati solo ai più grandi. In seguito alla restaurazione “di Vienna” sul trono di Napoli ritornò Ferdinando IV, poi Ferdinando I, che ordinò a Pizzo Calabro la fucilazione dell’eroe  francese nel momento in cui, dopo uno sbarco incauto per la riconquista del perduto Regno, era stato catturato.

La politica economica di Ferdinando molto gravosa per il Regno fu perseguita anche dal figlio Francesco I, determinando condizioni di malcontento molto diffuse, moti rivoluzionari e rivolte sempre domate con le armi che in Cilento nel 1828 e nel 1848 raggiunsero l’epoca della violenza.

Nel 1857 Carlo Pisacane tentò una spedizione che partendo dal Cilento avrebbe dovuto portare alla liberazione dell’intero Regno dal dominio Borbonico. Il 28 giugno vi fu lo sbarco a Sapri; Pisacane rimase subito sorpreso dall’assenza dei cospiratori napoletani, che avevano promesso il loro appoggio.  L’eroe, testardamente decise di proseguire verso l’interno sperando in un sollevamento della popolazione, nell’attesa che Napoli, Genova e Livorno si sollevassero a loro volta come stabilito.

Il primo luglio, a Padula, gli uomini di Pisacane si scontrarono con l’esercito borbonico, numericamente più forte per uomini e mezzi. Senza munizioni e privi di vettovaglie si convinsero a ripiegare verso il mare, ma il 2 luglio a Sanza furono attaccati da un centinaio di persone, in gran parte contadini, aizzati dai Borboni che li avevano convinti si trattasse di ladri. Pisacane insieme a quasi tutti i suoi compagni fu barbaramente trucidato.

Il riscatto del popolo cilentano avvenne pochi anni dopo con l’avanzata dal Sud del Paese di Garibaldi: sul Volturno, allo scontro decisivo, c’erano anche tre colonne di Cilentani, tra cui spiccavano i nomi di Diego De Mattia, Cristofaro Ferrara e i fratelli Magnoni.

Il plebiscito del 21-22 ottobre 1860 segnò poi l’annessione al Regno d’Italia: il sogno era realtà, ma era ancora troppo presto per chiudere i conti con il passato.

Agli inizi del Novecento, mentre ancora vivi erano i problemi che avevano caratterizzato il secolo appena terminato, sfumavano nella più totale disillusione le speranze suscitate dal sogno unitario restavano solo gli strascichi e gli odi formentati dalla durezza della repressione sabauda dei moti indipendentisti.

Il problema più grande restava comunque quello dell’emigrazione, che, determinato dalla grave instabilità economica, aveva raggiunto la soglia del 60% della popolazione: di ciò seppe profittare il fascismo. In epoca fascista infatti furono portate a termine la bonifica dell’Alento e della piana del Sele.

La battaglia del grano volta all’autarchia produttiva dell’Italia, non riuscì a migliorare i metodi di coltura praticati nel Cilento anzi ne danneggiò i fragili sistemi economici, causando dissapori e ribellioni che il sistema non esitò a reprimere sul nascere.

Alla fine della II guerra mondiale lo spirito contestatario sembrò tramutarsi in rassegnazione e la risposta cilentana al referendum per la Repubblica, il 2 giugno 1946, fu univoca: monarchia. Ma il Paese tutto, si sa, scelse diversamente.

Dal 1950 ad oggi la storia del Cilento non ha compiuto molti passo avanti. Solo neglia anni 90 con l’istituzione del Parco Nazionale del Cilento è stata data a queste terre una nuova ed importante occasione di riscatto.

Speriamo che la realtà corrisponda alle aspettative.

(estratto dal tomo “Le Coste Napoletane”, a cura di Massimo Rosi e Ferdinando Jannuzzi – Osservatorio Internazionale sulle Coste del Mediterraneo, Onlus – Giannini Editore, Napoli 2003)
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Ludovico Mosca About the author

Sono un collezionista di stampe, libri, foto d'epoca e film amatoriali ambientati in Italia, principalmente in Campania (Napoli, Vesuvio, Pompei, Sorrento, Capri, Ischia, Amalfi) e nutro interesse anche per i testi le immagini ed i filmati ambientati in altri luoghi, anche esteri. Lo scopo del mio blog è divulgare la storia, le bellezze ambientali ed architettoniche e le tradizioni di vari luoghi. Posseggo libri illustrati, cartoline, diapositive (sia le tradizionali Kodachrome e simili che lastre in vetro, anche del tipo da "lanterna magica") negativi fotografici, foto tradizionali, film su nastro (vhs, video 8, betamax etc.) e su pellicola in formato 8mm, Super 8mm e 16mm, a partire dal diciannovesimo secolo (attualmente il supporto più antico della mia collezione è una lastra fotografica che riproduce una veduta di Sorrento databile tra il 1865 ed il 1875) sino agli anni del 1980. Effettuo in proprio, con attrezzature semi-professionali da hobbista, le digitalizzazioni dei vari supporti presenti nel mio archivio, dedicando a questa passione gran parte del mio tempo libero e spinto da una costante curiosità verso i costumi e le tradizioni del passato. La famiglia di mio padre Giuseppe è originaria di Gragnano, in provincia di Napoli, cittadina famosa per la produzione della pasta, i "maccheroni" ed altri formati, e del vino.

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